Non possiamo attraversare finché non ci sosteniamo l’un l’altro

Riporto qui, tradotto, un testo scritto da Arielle Angel, la redattrice capa di «Jewish Currents», pubblicato a pochi giorni dall’atroce attacco di Hamas del 7 ottobre. Al momento, e dopo aver letto decine e decine di prese di posizione di attivisti e intellettuali, mi sembra che il testo di Angel indichi, pur se con un fondo di amarezza e groppo in gola, l’unica direzione possibile per la soluzione del conflitto israelo-palestinese. Qualcosa su cui ragionare e su cui lavorare, quanto meno. Qui trovate la versione originale, in inglese, perdonate gli obbrobri della traduzione.

Questa è stata la settimana più difficile che abbiamo mai dovuto affrontare come staff di «Jewish Currents». Gli eventi si susseguono così velocemente che non sembra esserci alcuna speranza di coglierli appieno, di dire la cosa giusta per il momento che è già passato. Con grande sforzo finiamo una sezione del nostro «spiegazione» e poi emergono nuove informazioni che lo invalidano. E non si tratta solo di fatti. I sentimenti e le posizioni sono in continuo mutamento. Ci sono questioni politiche e linee di frattura che hanno sobbollito sotto la superficie nella nostra organizzazione — nella sinistra ebraica e, sospetto, nella sinistra in generale — che stanno esplodendo in primo piano, intasando i lavori in un momento in cui l’urgenza è fondamentale. I membri dello staff scoppiano periodicamente in lacrime, litigano con le loro famiglie o con i loro amici, dormono poco e male. Il figlio di un collaboratore è in ostaggio. Un collaboratore a Gaza scrive un messaggio: «Sono ancora vivo. Stanno bombardando ovunque. Nessun posto è sicuro».

La maggior parte dei nostri disaccordi interni si concentra sul contenitore corretto per il nostro dolore. Il nostro staff non è diverso dal resto del mondo ebraico, in quanto molti di noi sono a pochi gradi di separazione da qualcuno che è morto o che è stato preso in ostaggio. Come possiamo piangere pubblicamente la morte e la sofferenza degli israeliani senza che questi sentimenti vengano metabolizzati politicamente contro i palestinesi?

Abbiamo buone ragioni per preoccuparci: mentre gli israeliani contano i loro morti, i politici in Israele e negli Stati Uniti invocano il sangue palestinese con un linguaggio diretto e genocida. «Stiamo combattendo contro animali umani e agiremo di conseguenza», ha dichiarato ieri il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant. «Finiscili, Netanyahu», ha detto l’ex ambasciatore alle Nazioni Unite e candidata repubblicana alla presidenza Nikki Haley. «Neutralizzare i terroristi», ha detto il senatore democratico John Fetterman. Gli ebrei condividono meme sul più alto numero di vittime ebree dai tempi dell’Olocausto, senza preoccuparsi di chiedere chi, in questo momento, sia oggetto di pulizia etnica, o quanti massacri di queste dimensioni Gaza abbia visto negli ultimi dodici anni. Questo linguaggio mette in campo le bombe che cadono sui gazesi dal cielo, radendo al suolo interi quartieri, spazzando via famiglie senza preavviso, rannicchiate nelle loro case perché non hanno un posto dove fuggire. «Ci sono parti di corpi sparsi ovunque. Ci sono ancora persone disperse», ha detto un uomo a nord di Gaza City alla CNN. «Stiamo ancora cercando i nostri fratelli, i nostri figli. È come se fossimo bloccati a vivere in un incubo». Probabilmente vedremo presto diffondersi questo impulso genocida, dato che il governo israeliano distribuisce armi automatiche ai coloni della Cisgiordania, molti dei quali erano già «eliminatori» armati. In questo modo, il dolore ebraico viene ricondotto alla violenza di un sistema spietato di sottomissione dei palestinesi che regna dal fiume al mare. Viene mobilitato dai politici statunitensi che sostengono Benjamin Netanyahu e il suo governo estremista, che ha intensificato la morte e lo sfollamento dei palestinesi, facendo scomparire ogni speranza di soluzione diplomatica. Viene mobilitato per raccogliere sostegno per l’invio di armi a Israele, anche se sappiamo che, come ha scritto Haggai Mattar su +972 Magazine, «non c’è soluzione militare al problema di Israele con Gaza, né alla resistenza che emerge naturalmente come risposta all’apartheid violento».

Non possiamo permettere che il nostro dolore venga piegato a questi scopi, ma non è chiaro dove altro metterlo. Chiunque abbia lavorato in questo spazio sa che i nostri movimenti non sono preparati a gestire le ricadute emotive e politiche. Assistiamo a persone e gruppi ebraici che pensavamo di aver coinvolto nella nostra lotta, o che avevano almeno iniziato a muoversi politicamente, che improvvisamente serrano i ranghi, professano il loro sostegno all’IDF, si ritirano nella disperazione. Le relazioni già complesse e fragili tra attivisti palestinesi ed ebrei di sinistra, così come le fazioni all’interno di entrambi i gruppi, vengono messe in discussione mentre lottiamo per trarre lo stesso significato dalle immagini che passano sui nostri schermi. Amici e colleghi di tutte le parti si trovano feriti dalle reazioni pubbliche degli uni e degli altri, o dal loro silenzio. Un attivista antisionista veterano con cui ho parlato si è chiesto se non si stia aprendo un «abisso» tra attivisti palestinesi ed ebrei, soprattutto perché il momento attuale ha reso visibili i legami tangibili degli ebrei della diaspora con quel luogo e quelle persone che, a quanto pare, non sono solo oggetto della propaganda israeliana. Durante il fine settimana, molti ebrei dichiaratamente antisionisti hanno scoperto di non potersi unire alle proteste di solidarietà perché avevano bisogno di qualcosa che le proteste non potevano fornire: uno spazio per piangere i morti israeliani, per lottare con il proprio posto nel processo politico a venire. È una situazione che nessuno di noi ha mai affrontato seriamente prima d’ora, in una lunga storia di morti sproporzionate. E ora, quando ne abbiamo più bisogno, ci troviamo a lottare con la mancanza di un vocabolario emotivo e politico.

Il 7 ottobre, i miei stessi sentimenti hanno oscillato in modo selvaggio. Il mio primo sentimento è stato la paura. Ascoltare attentamente il linguaggio genocida di questo governo israeliano nell’ultimo anno è stato come vivere nel terrore del giorno in cui avrebbero trovato la scusa per perseguirlo. Scrivendo su n+1, il collaboratore di «Jewish Currents» David Klion racconta le parole di un attivista del campus all’indomani dell’11 settembre: «Sono già morti», aveva detto il giorno in cui Bush aveva dichiarato guerra agli iracheni, il loro destino era segnato. Ho sentito queste parole nel mio corpo, singhiozzando forte davanti allo schermo. All’inizio, ci sono state anche esplosioni di stupore. Ho guardato l’immagine del bulldozer che distruggeva la barriera di Gaza e ho pianto lacrime di speranza. Ho guardato adolescenti palestinesi andare in giro in un posto a mezzo miglio di distanza [dalla loro terra] in cui probabilmente non erano mai stati; un blogger gazese che improvvisamente scriveva la sua cronaca da Israele. Ma a queste immagini se ne sono aggiunte presto altre: l’immagine di un corpo di donna, quasi nudo e piegato in modo innaturale sul retro di un camion; stanze piene di famiglie che giacevano ammucchiate, con le pareti sporche di sangue. Volevo disperatamente tenere separate queste immagini, tenere stretta la metafora liberatoria e bandire la realtà violenta. Quando ho cominciato ad accettare che si trattava di immagini dello stesso evento, ero sconvolta e in preda a una crescente alienazione nei confronti di coloro che non sembravano condividere il mio dolore, soprattutto quando la portata del massacro è diventata evidente.

«Ho amici ebrei antisionisti che sono giustamente spaventati», ha scritto la scrittrice e reporter Hebh Jamal in un recente articolo su Mondoweiss. Osserva come, nonostante tutta la loro simpatia per la sofferenza palestinese, questo potrebbe essere il primo momento in cui tali alleati assaporano la paura — e lo stato di lutto — che è stato reale per i palestinesi per decenni. Anche lei ha perso qualcuno questa settimana, un cugino di 20 anni. «Non gioisco per la morte. Mi rallegro della possibilità di vivere», scrive, e come tale «non posso condannare i militanti se credo anche solo per un secondo che ci possa essere la possibilità che tutto questo abbia finalmente fine». Hebh descrive il senso di possibilità che molti palestinesi hanno provato durante questi eventi, poiché hanno disturbato — forse solo momentaneamente, resta da vedere — il paradigma dominante in cui sono condannati a morire in attesa della libertà, mentre tante altre vie nonviolente di liberazione sono state punite o ignorate. La sua reazione appare comune a così tanti palestinesi che conosco e di cui mi fido, che devo cercare di capire come funziona.

Mentre osservavo le persone che discutevano online sui modelli di lotta anticoloniale, facendo paragoni con l’Algeria, il Nord America e il Sudafrica, mi sono ritrovata a tornare al mito fondamentale della liberazione ebraica: l’Esodo. È stato difficile non pensare al momento del Seder pasquale in cui, mentre recitiamo le Piaghe, abbassiamo il vino nelle nostre tazze piene con i mignoli. Questo rituale si è materializzato come un’indispensabile pietra di paragone, che insiste sul fatto che per mantenere la nostra umanità dobbiamo soffrire per ogni violenza, anche quella contro l’oppressore.

Ma ho anche pensato alle Piaghe stesse, in particolare a quella finale, l’uccisione dei primi nati, bambini, adulti, anziani. Sembra che nel nostro mito di liberazione si nasconda il riconoscimento che la violenza colpirà indiscriminatamente la società che opprime. So di avere molti amici, e che «Currents» ha molti lettori, che si chiedono come possano far parte di una sinistra che sembra trattare le morti israeliane come una parte necessaria, se non auspicabile, della liberazione palestinese. Ma ciò che l’Esodo ci ricorda è che la disumanizzazione necessaria per opprimere e occupare un altro popolo disumanizza sempre l’oppressore a sua volta. Per le persone che sentono che il loro dolore viene svalutato, è perché è così; e questa svalutazione è essa stessa un segno distintivo del ciclo della diminuzione del valore della vita umana. Come ha detto la geografa abolizionista Ruth Wilson Gilmore, «dove la vita è preziosa, la vita è preziosa». Stiamo vedendo come gli ebrei, in quanto agenti dell’apartheid, non saranno risparmiati — anche quelli di noi che hanno dedicato la loro vita alla lotta per porvi fine. (Penso a Hayim Katsman, zichrono l’vracha, ucciso da Hamas, attivista contro l’espulsione della comunità cisgiordana di Masafer Yatta, e a Vivian Silver, ostaggio a Gaza, conosciuta da molti abitanti [di Gaza] come la persona che incontrano al valico di Erez e che sostiene e facilita il loro trasferimento negli ospedali israeliani per le cure).

La questione di come recuperare questa umanità è, in ultima analisi, una questione organizzativa. Negli ultimi giorni si è ripetuto più volte che «non si può dire ai palestinesi come resistere». A me sembra che questo assioma abbia una dimensione molto letterale: non lo chiedono. Parte di ciò che ha reso l’esperienza di questo evento così diversa dallo status quo — e così diversa per i palestinesi e gli ebrei — deriva dal fatto che i palestinesi sono stati innegabilmente gli attori, per una volta, non gli agiti: i protagonisti della storia. Considero un enorme fallimento dei nostri movimenti il fatto che finora non siamo stati in grado di costruire un veicolo per questo tipo di rovesciamento in nessun altro modo. I nostri movimenti ebraici per la Palestina non sono stati abbastanza potenti da impedire ad altri ebrei di uccidere i palestinesi durante le marce pacifiche alla barriera di confine di Gaza, o di impedire che i palestinesi venissero licenziati, molestati e citati in giudizio per aver detto la verità sulla loro esperienza o — Dio non voglia — per aver sostenuto la tattica nonviolenta del boicottaggio. E ora non abbiamo una lotta condivisa in grado di rispondere in modo credibile a questi massacri di israeliani e palestinesi. Con tutto il lavoro che molti ebrei e palestinesi hanno fatto per avvicinarsi l’uno all’altro nel corso degli anni, credo che in fondo sia proprio questo fallimento ad allontanarci. Non c’è nessuna straordinaria formazione politica che io conosca che possa in questo momento contenere la soggettività politica di ebrei e palestinesi senza tentare semplicemente di assimilare gli uni agli altri. Non c’è un luogo in cui ebrei e palestinesi che concordano sulle basi della liberazione palestinese — diritto al ritorno, uguaglianza e riparazione — siano in grado di trasformare la sintesi di queste due soggettività in una strategia coerente.

Una delle cose più terribili di questo evento è il senso della sua inevitabilità. La violenza dell’apartheid e del colonialismo genera altra violenza. Molte persone hanno lottato con la camicia di forza di questa inevitabilità, sforzandosi di articolare che il suo riconoscimento non significa la sua accettazione. Ricordo a me stessa che è stato grazie ai palestinesi, molti dei quali scrivono e parlano in queste pagine, che ho imparato a pensare alla Palestina come a un luogo di possibilità: un luogo in cui l’idea stessa di Stato-nazione, che ha tanto danneggiato entrambi i popoli, potrebbe essere rifatta o distrutta completamente. E sono stati i palestinesi ad aprire il mio pensiero a molteplici visioni della condivisione della terra. A sinistra, spero che non scambieremo l’inevitabilità della violenza per un limite ineluttabile al nostro lavoro o alla qualità del nostro pensiero. Anche se i nostri sogni di miglioramento sono falliti, devono accompagnarci attraverso questo momento fino all’altra sponda. Dobbiamo immaginare un movimento di liberazione migliore persino dell’Esodo, un esodo in cui nessuno dei due debba andarsene. Un esodo in cui le persone rimangano a raccogliere i pezzi, riorganizzandosi non solo come ebrei o palestinesi, ma anche come antifascisti, lavoratori e artisti. Voglio quello che la poetessa e attivista ebrea portoricana Aurora Levins Morales descrive nella sua poesia Mar Rosso:

Non possiamo attraversare finché non ci sosteniamo l’un l’altro,
tutti noi rifugiati, tutti noi profeti.
Basta fare giri sulla ruota della storia,
cercando di riscuotere vecchi debiti che nessuno può pagare.
Il mare non si aprirà in questo modo.

Questa volta quel paese
è ciò che ci promettiamo l’un l’altro,
la nostra rabbia premuta guancia a guancia
fino a quando le lacrime non inonderanno lo spazio tra di loro,
fino a quando non ci saranno più nemici,
perché questa volta nessuno sarà lasciato annegare
e tutti noi dobbiamo essere scelti.
Questa volta o tutti o nessuno.

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